20 gennaio 2024
Quando Youlsa Tangara aveva sei anni era l’unico studente del villaggio di Neguena (Mali), gli altri bambini andavano a lavorare nei campi. Suo padre credeva fortemente nell’istruzione e voleva dargli un futuro diverso da quello dei coetanei. Ma a Neguena non c’era la scuola, e così Youlsa percorreva tutti i giorni otto chilometri a piedi per andare e tornare dalla scuola nel villaggio vicino. Il padre gli fa continuare gli studi nella capitale, Bamako, fino al diploma di ragioneria. Poi le cose si complicano: una grave crisi alimentare, la guerriglia interna, il colpo di stato dei militari, proteste di piazza in cui anche Youlsa viene coinvolto. Fugge in Costa d’Avorio, poi la lunga marcia verso la Libia e il viaggio nel Mediterraneo. Viene salvato da una motovedetta della Guardia Costiera italiana, poi il trasferimento in un centro di accoglienza a Bologna. Il diploma di ragioneria e la conoscenza delle lingue diventano i trampolini per trovare lavoro, ma Youlsa non dimentica quello che si è lasciato alle spalle. Assieme ad altri giovani della diaspora maliana fonda l’associazione Yérédemeton (“Mutuo aiuto”) e dà vita al progetto “Un villaggio una scuola” per offrire ai bambini del suo villaggio l’istruzione e un futuro migliore. Parte una raccolta di fondi che con il sostegno della Caritas e di altre associazioni permette di raccogliere la cifra necessaria per avviare i lavori. Contemporaneamente a Neguena si mobilitano giovani e adulti per raccogliere pietre, alzare e dipingere muri, attrezzare due aule. In ottobre Youlsa ha coronato il suo sogno: aprire la scuola che non c’era e adesso c’è. Ma lui ne coltiva già un altro: grazie a una collaborazione con la fondazione Meet Human di Bergamo sta acquisendo le competenze necessarie per avviare una scuola di formazione professionale. Agricoltura, zootecnia, informatica, elettromeccanica: sono i percorsi che verranno proposti ai giovani maliani, un investimento in formazione che diventi fattore di sviluppo locale e alternativa possibile alla migrazione. Lui non ha dubbi: “Il futuro del mio villaggio, come quello di tutta l’Africa, passa dalla scuola. Ho un debito di riconoscenza con la mia famiglia che mi ha permesso di studiare, con l’Italia che mi ha salvato dalla morte in mare, con tanti italiani che insieme ai miei connazionali hanno permesso di costruire la scuola nel mio villaggio. Insieme si può”.
Agostino Sella è direttore dell’Associazione Don Bosco 2000, che gestisce centri di accoglienza per migranti in Sicilia e ha lanciato progetti di “cooperazione circolare” in Senegal, Mali e Gambia: alcuni migranti ospiti dei centri di accoglienza dopo avere seguito percorsi di formazione rientrano nel Paese di origine per avviare attività generatrici di reddito a favore delle popolazioni locali. In questi anni sono nati orti sociali, serre e pollai che danno lavoro a tanti giovani che si candidavano alla migrazione e hanno trovato le ragioni per non partire verso l’Europa. Il progetto della cooperazione circolare prevede un movimento in due direzioni: il migrante dopo essere tornato nella terra di origine rientra periodicamente in Italia per continuare il suo percorso di formazione, così diventa cooperante e può favorire il passaggio da un’economia di sopravvivenza a una cultura d’impresa. Non è soltanto una buona pratica, ma un modello che può aiutare a cambiare passo sia nelle politiche migratorie, sia nella cooperazione allo sviluppo che spesso è legata a progetti di corto respiro e che non generano una reale autonomia nelle popolazioni locali. “Seguendo la lezione di Don Bosco e del suo metodo preventivo – osserva Sella – vogliamo valorizzare i talenti di chi arriva in Italia e che può diventare una risorsa utile sia al nostro Paese (pensiamo ai tanti posti di lavoro che non vengono occupati dagli italiani), sia alle terre da cui proviene”.